Casomai giudico un corto…

Alessandro D’Alatri nasce a Roma il 24/2/1955. Inizia la sua attività nello spettacolo all’età di otto anni, recitando in teatro, cinema e televisione con Visconti, Strehler, De Sica, Pietrangeli, Zurlini, Bolchi e altri prestigiosi autori…

Alessandro D'Alatri
“Casomai giudico un corto…”

Abbiamo incontrato Alessandro D’Alatri, regista italiano di film quali Americano Rosso, Senza Pelle, I Giardini dell’Eden e l’ultimo film che vede come protagonisti gli interpreti Stefania Rocca e Fabio Volo, Casomai. Il filmaker è presente qui a Trieste in occasione della rassegna di cortometraggi Maremetraggio, giunta oramai alla terza edizione.

Martina Palaskov Begov (MPB): Lei è qui a Trieste in veste di giudice, infatti, assieme ad altri giurati, avrà il compito di scegliere un vincitore, tra i vincitori. Il Maremetraggio, viene altrimenti chiamato l’Oscar dei corti proprio perché i film in competizione hanno già precedentemente vinto dei premi. Conosceva la manifestazione e che cosa ne pensa dei corti in genere come forma artistica?

Alessandro D’Alatri (AD): Ho conosciuto la manifestazione tramite un altro festival che si svolge a Cortina, che prende il nome di Cortinametraggio, organizzato dallo stesso gruppo che allestisce il Maremetraggio. Avevo sentito parlare molto di questo festival. Trovo che questo tipo di manifestazione rientra in un momento di grande espansione per quanto riguarda il cortometraggio. Si tratta di un festival estivo, molti festival di corti vengono fatti d’estate; Capalbio, Trevignano… Trovo che un po’ tutta l’Italia ha dato spazio e visibilità a una forma espressiva come quella del cortometraggio che molto spesso non trova altre applicazioni, se non attraverso la pay tv o molto tardi la sera sulle reti nazionali. Inoltre il web, luogo dove sempre più spesso si possono trovare cortometraggi, non è ancora per tutti. Pochi sono i corti che arrivano nelle sale, quindi mi sembra una manifestazione molto interessante. Il cortometraggio è una forma espressiva che trovo molto importante. Non lo considero come un’anticamera del cinema, del lungometraggio, tuttavia. Infatti, come nella letteratura esiste il romanzo e la novella, così nel cinema, nelle arti visive, esistono i lungometraggi e i cortometraggi. Credo che si tratti di una forma narrativa a sé stante, non ha nulla a che vedere con i film più lunghi, i due non vanno paragonati. Anche il giudizio quindi deve essere diverso, poiché gli stili sono diversi. Credo che il corto abbia una sua identità molto forte e specifica. E anche vero che, per i ragazzi giovani, è più facile girare un corto, quindi, a volte, il prodotto viene usato come una sorta di biglietto da visita per il mondo dello spettacolo. Ma è altrettanto vero che registi affermati di lungometraggi scelgono di loro spontanea volontà di girare un cortometraggio, perché hanno avuto un’esigenza, un’idea, che è realizzabile solamente in un tempo breve.

MPB: Il discorso vale anche per quanto riguarda il metodo di giudizio che si impone al corto?

AD: L’unico errore, forse, in cui potrebbe incappare un giurato sarebbe quello di considerare un cortometraggio come un film. Non di tratta di un film, per l’appunto, quindi lo si deve giudicare come un racconto breve, con una sua unità di racconto. La valutazione dovrebbe riguardare più le emozioni che suscita il corto, in una misura breve. Emozioni che possono essere date tramite la recitazione, la tecnica, o l’applicazione dell’arte visiva. Infatti, in questo festival sono presenti delle opere che sono molto sperimentali. Non è detto che un corto debba essere un mini-film; può essere una formula espressiva alternativa, sperimentale. Insieme ai giurati, dovremmo cercare di capire, di sincronizzarci su questo tipo di aspetto, tenendo conto che quello che può sembrare un piccolo filmetto, non è soltanto quello.

MPB: Volevo partire ora da Casomai, il suo ultimo film, per parlare in generale del suo modo di lavorare, della tecnica cinematografica che lei usa, come lavora con gli attori… Affiancando a questa discussione, anche una breve considerazione sulla cantante Elisa, con la quale lei ha lavorato recentemente.

AD: Sono molte le domande… Incominciamo dal film, Casomai. Si tratta del mio quarto film; un film sicuramente più complesso rispetto alle mie produzioni precedenti; ha una sua particolare fase evolutiva linguistica… diversa. Mi sono molto divertito a costruire il film, tenendo conto e analizzando il comportamento in una relazione sentimentale; questo è stato il plot centrale… Dall’altra parte c’è stato il mio desiderio di rompere con le dimensioni strette del cinema italiano che sono strutturate un po’ come l’ABC del cinema. Quindi nel film utilizzo un linguaggio sperimentale, se vuoi, per il grande pubblico; montaggi veloci, grandi sintesi, uso degli effetti speciali, l’uso della metafora, l’incrocio delle metafore. Ero titubante all’inizio; dicevo, chissà se il pubblico riuscirà a recepire un percorso di questo tipo. Invece vedo che un grosso pubblico, non soltanto un pubblico di nicchia giovanile, si è unito in sala; dagli adolescenti alle persone anziane. Ciò mi ha fatto molto piacere. Sento, infatti, spesso parlare di cinema generazionale, che è un termine che non mi piace molto, mi fa un po’ pensare alle riserve indiane. Preferisco un cinema che unisce in sala. Si tratta di un fattore stimolante, soprattutto quando lo si riesce a fare con un linguaggio che non è consono per tutti.

Alessandro D'Alatri e Fabio Volo sul set di

MPB: Un film, in ogni caso, aperto ad interpretazioni personali, proprio perché la narrazione, da un certo punto di vista, non è volutamente chiara…

AD: Esatto. Credo che un regista dovrebbe avere due fondamentali punti di riferimento, quando gira un film: il primo riguarda una profonda integrità intellettuale nelle cose che racconta, la seconda cosa importante è un’urgenza narrativa vera. Se io ho urgenza di esprimere quello che ho in mente, vuol dire che c’è effettivamente la necessità di urlare quella determinata cosa. Il successo, secondo me, si misura solamente in questa fase della produzione. I produttori lo stabiliscono tramite gli incassi e la vendita, con i numeri, credo. Per un regista il successo del film è invece la condivisione di un sentimento assieme a una gran quantità di persone. Questo è forse quello che mi fa più piacere. Il tema che ho affrontato io è molto caldo. Da molti anni si parla di crisi della coppia, crisi dell’amore, crisi della famiglia. Ci si ferma però solo alla considerazione finale; le cose non vanno, punto e basta. L’idea invece era quella di andare a vedere perché le cose non funzionano all’interno di una coppia. Insieme ad Anna Pavignano, sceneggiatrice del film, per altro candidata all’Oscar per la sceneggiatura de Il Postino, quindi una figura importante, abbiamo all’inizio, lavorato analizzando i comportamenti delle persone e abbiamo notato che, nella stragrande maggioranza dei casi, chi è in crisi o sta per entrare in crisi, in realtà non lamenta mai una crisi nata all’interno della coppia, i problemi vengono quasi sempre da fuori. Poi all’interno della coppia nidificano, producono frutti indesiderati. L’idea era quella di vedere quali erano queste pressioni. E cosi è nata tutta la struttura narrativa del film. Abbiamo inquadrato il mondo del lavoro, l’iconografia ufficiale che viene data in generale dai media, il mondo degli amici, la morale. Tutta una serie di cose che comunque premono sulla coppia, intorno a due che si amano. Se infatti all’inizio tutti partecipano attivamente alla relazione (due si mettono insieme…tutto il mondo è felice), poi, nel corso del tempo, i due si renderanno conto di essere soli. Gli amici diventano quasi destabilizzanti all’interno del rapporto. Si sente spesso dire: “Madonna che noia quei due, sempre insieme, sempre a sbaciucchiarsi” dà quasi fastidio vedere due che si amano. Partendo da questo fastidio, abbiamo cercato di capire perché due che si amano oggi, possono essere destabilizzanti per la società. Da dove nasce appunto questo fastidio? Finché tutto va male, infatti, ognuno di noi può esorcizzare la paura che una cosa simile accada; ripete: “Se succede a tutti, perché non dovrebbe succedere a me”. Ma dal momento in cui oggi ci sono ancora delle casistiche che invece riescono a stare insieme, che riescono a vincere, allora forse diventano destabilizzanti perché il ragionamento sociale diventa contorto: “Io, che non ci riesco, soffro di più”.

Alessandro D'Alatri  con Stefania Rocca sul set di

Per quanto riguarda il mio lavoro con gli attori, devo dire che ci lavoro molto intensamente, mi piace molto. Trovo che questa fase in particolare sia una delle fasi più interessanti del mio lavoro. Tutti i miei cast sono sempre stati dei cast coraggiosi. Cominciando dal mio primo film, dove c’era un Fabrizio Bentivoglio inedito, una Sabrina Ferilli che non si era mai vista e Valeria Millo che fu battezzata proprio in quel film. Kim Rossi Stuart veniva da Fantaghirò, quindi non aveva nessuna credibilità cinematografica, Fabio Volo in questo caso…

La maggior parte degli attori che ha lavorato a questo film, sono degli esordienti. C’è, quindi, da parte mia, la volontà di lavorare con gli attori, considerandoli delle materie plasmabili. Mi diverte molto. In questo film, poi, mi sono concentrato il doppio: avevamo 82 personaggi! Un film molto ricco di cast. È stata un’esperienza molto bella, poiché ogni giorno sul set trovi gente diversa. È molto stimolante per un regista lavorare con umanità diverse, portatrici di valori diversi, di significati diversi.

Parlando della musica, ho lavorato con Pivio e Aldo De Scalzi (parlo della colonna sonora originale del film). Con loro ho lavorato anche per I giardini dell’Eden. Per questo progetto però, mi sarebbe piaciuto avere una canzone. Volevo dei musicisti “commentatori del film”. Mi piace molto quando nel cinema c’è il cantante. Purtroppo non si può fare molto spesso perché costa molto, i brani dei cantati già composti costano un sacco di soldi.

Elisa, secondo me, è uno dei talenti più grossi che abbiamo in Italia, ha una potenza canora fantastica. Tra le altre cose, la nostra collaborazione è nata tramite delle coincidenze; io cercavo lei e la sua casa discografica stava cercando me per propormi un clip. È nato un contatto un po’ voluto dal destino; un matrimonio, all’interno del matrimonio del film (ride). Abbiamo, inoltre condiviso un clip insieme, Heaven out of Hell, quello dei pattinatori, per intenderci. Questo è appunto il contributo che ha dato Elisa al film. Io ho sentito il disco di Elisa prima che uscisse in commercio, mi è piaciuta e abbiamo deciso di fare questo connubio artistico. Io ho fatto il clip per loro, prestando anche delle immagini del film da inserire nel video. Posso parlare di un bel rapporto anche per quanto riguarda la condivisione artistica. Inoltre trovo che il successo che Elisa sta ottenendo sia un successo meritato. Ti racconto un aneddoto: quando ci siamo incontrati, poche ore prima di girare il clip, avevo già in mente come girare il video, però non sapevo come lei cantasse; ovvero non sapevo come cantasse dal vivo. L’avevo sempre sentita tramite un CD. Così andai nel suo camerino e le dissi.” Vorrei vederti cantare, come canti?” Magari sai, c’è chi canta da fermo, chi gesticola molto, chi fa delle particolari espressioni… Al momento non avevamo lì il CD, così me l’ha cantata senza musica, in una stanza. Ho sentito, quando lei stava cantando, una capacità artistica straordinaria. Perché in quel momento, senza il supporto della musica, ho sentito soltanto la potenza canora di un artista… una cosa veramente magica! Ho avuto un emozione fortissima. Molto spesso noi sentiamo la radio o il CD, per cui sentiamo la voce amplificata. Sentirla invece dal vivo, senza amplificazioni, senza contributi, è stata per me un’emozione straordinaria. Le auguro ogni bene, perché veramente se lo merita. Secondo me, Elisa farà tantissima strada, a mio avviso, è una nuova “Mina” italiana. Poi ha questo grandissimo vantaggio che può affrontare i mercati internazionali perché canta in lingua inglese e lo fa benissimo. Il pubblico straniero la ama molto. Proprio in questi giorni credo che stia incominciando in suo tour americano.

MPB: Noi siamo un webmagazine e come tale facciamo parte di tutte quelle nuove realtà “‘informatiche” che stanno rivoluzionando la nostra società e anche il mondo del cinema. Infatti queste nuove tecnologie (mi riferisco alle telecamere digitali e al montaggio digitale) stanno dando la possibilità a molti giovani di esprimersi, possibilità che prima non avevano. Lei crede che questo sia un bene per il mondo del cinema o piuttosto un modo per rimpiazzare la quantità alla qualità?

AD: Io credo che non ci sia nulla che possa sostituirsi a qualcos’altro. Ricordo quando ci fu l’avvento della radio, tutti temevano che la radio diventasse il nemico del teatro, e così anche quando ci fu l’avvento della televisione, questa venne vista come acerrima nemica della radio, mentre invece le due oggi coesistono tranquillamente, tra l’altro con gradimenti moto alti da parte del pubblico. E nello stesso modo non ho mai pensato alla Tv come a un nemico per il cinema. Parimenti non credo che il Web sia un concorrente delle arti citate. La cosa più interessante per me è la sinergia che si instaura tra diverse forme espressive. Credo che il cinema possa utilizzare il Web e il Web il cinema, e così vale anche per tutte le altre arti. Noi viviamo in un’epoca dove ogni invenzione ci dà dei contributi forti. Pensiamo solo al fatto che appena dieci anni fa non c’era ancora i fax, mentre oggi è superato. Tutto questo ti fa capire che cosa è successo e che cosa succederà. Trovo che il Web sia un mezzo profondamente democratico, che apre finestre sul mondo. Credo che sia uno delle novità più belle della globalizzazione. Il Web offre la possibilità a moltissime persone di restare in contatto pur vivendo in diverse parti del mondo. Questo è un metodo di comunicazione che va oltre a quelle che sono le normali istituzioni che curano le relazioni internazionali. Oggi una ragazza cilena può dialogare tranquillamente con un ragazzo a Tokyo, e questo, secondo me, è un esercizio di grandissima libertà che bisogna essere in grado di saper utilizzare e difendere.

MPB: Per quanto riguarda il cinema però, mentre una volta proprio questa difficoltà di poter girare film obbligava i giovani ragazzi che volevano diventare dei registi a studiare e ad imporsi una formazione personale, oggi la tecnologia avanzata, le telecamere digitali, il montaggio “home-made”, dà la possibilità a chiunque di produrre anche fregnacce.

AD: Anche per quanto riguarda questo punto di vista si potrà forse parlare in futuro di cinematografia digitale che differirà da quella odierna in pellicola. Poi ci sono le cinematografie industriali, quelle sperimentali ,la video arte, e via dicendo… Diventano tante metodologie artistiche diverse che allargano, secondo me, gli orizzonti della comunicazione. È chiaro che quando tutti possono fare un film, ci saranno sicuramente delle grossissime percentuali di film brutti. Però è anche vero che in questo panorama sarà facile identificare quelli belli.

MPB: Parliamo un po’ del cinema italiano contemporaneo. Di solito, quando si fa riferimento al cinema italiano, si parla sempre di generazioni di registi. Mentre oggi la critica parla spesso di cinematografie individuali, film personali e caratteristiche specifiche. Che cosa ne pensa lei di queste nuove generazioni, e come è cambiato il cinema italiano?

AD: Consideriamo che il cinema italiano è una materia che viene studiata in tutte le scuole di cinema nel mondo. Già dicendo questo, notiamo che questa non è una caratteristica di tante cinematografie. Il nostro è un cinema che si difende con grandi difficoltà; parliamo una sola lingua, ed è molto più difficile per noi riuscire ad esportare le nostre pellicole, come invece fanno esponenti della cinematografi inglese. Noi, da questo punto di vista, partiamo già svantaggiati. Si parla di crisi del cinema italiano da quando è nato il cinema italiano. Anche il cinema muto aveva vissuto un momento di crisi, ma, senza andare troppo lontano, se noi andiamo a vedere il carteggio che c’è tra Zavattini e de Sica, negli anni Cinquanta, anche loro parlano della “crisi” del cinema italiano, mentre oggi quel periodo cinematografico viene definito il periodo d’oro della nostra cinematografia. Credo che la crisi sia in qualche modo fisiologica del cinema. La parola “crisi” in greco significa però anche crescita. Credo, infatti, che si tratti di un meccanismo complementare. Le cinematografie si cibano di crisi: crisi culturali, crisi d’identità intellettuale, crisi economiche, crisi politiche. Il cinema entra proprio dove c’è attrito, dove c’è contrasto. In questo momento la nostra cinematografia sta crescendo molto. Negli ultimi quindici anni è rinata una generazione di cineasti, dopo una moria di cineasti importantissimi. Se tu pensi che, a cavallo tra i primi anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, sono morti i più importanti maestri del cinema italiano, prematuramente; Pasolini, Germi, Petri, Fellini. Sono scomparsi degli autori italiani molto importanti, che erano dei fari, in qualche modo, della nostra cinematografia. E quindi le nuove generazioni sono dovuti rinascere dalle ceneri di un cinema che di colpo, non c’è stato più. E anche vero che non solo i registi e autori sono rinati, ma anche una folta generazione di attori. Io non sono tra quelli che dicono che in Italia mancano gli attori; gli attori ci sono, bisogna avere il coraggio di saperli usare, di saperli “manipolare”. Bisogna cercare di far fare un po’ di tutto a questi nostri attori, un po’ come sta facendo la scuola americana. Pensiamo a De Niro che ha interpretato ruoli molto diversi tra loro, con grande successo; grasso, magro, buono, cattivo… Dobbiamo cercare di far uscire i nostri attori dai soliti cliché. Contemporaneamente però abbiamo un cinema che sta travalicando il mondo, grazie a poche realtà. Ma con questi film, riusciamo a farci conoscere anche altrove. La vita è bella è stato un film che ha regalato grosse emozioni e ha donato grande visibilità al cinema italiano. Vinciamo Oscar più o meno un anno si e un anno no. Io sono molto ottimista, devo dire. Credo che, con il nuovo bagaglio delle nuove generazioni, e soprattutto con il contatto che si può instaurare tra chi del mestiere conosce i segreti e che è alle prime armi, si possano fare grandi cose. L’unica cosa che manca veramente è l’assenza di sinergia tra queste due generazioni. Siamo divisi, poiché in Italia non c’è una grande industria cinematografica, anzi potremmo tranquillamente affermare che l’industria è totalmente assente. Questo è un elemento che manca al nostro cinema; i vari Ponti, De Laurentiis, questi grandi produttori che investivano nel cinema italiano, che rischiavano veramente e diventavano imprenditori. Purtroppo poi le leggi italiane, che potevano favorire questi investitori e imprenditori, non ci sono state e quindi questi personaggi sono poi spariti. Quello che spero è che lo Stato non continui a dare finanziamenti concretamente, ma che permetta a privati di investire nel mondo dell’arte, non solo quello del cinema, defiscalizzandolo. Questa sarebbe per me una grandissima svolta del mondo artistico italiano.

Alessandro D'Alatri, Fabio Volo e Stefania Rocca controllano una scena di

M.P.B: Qual è, secondo lei, la tipologia cinematografica adatta ai cineasti italiani, qual è il film che riesce meglio al cinema italiano?

AD: Noi siamo in grado di fare tutto; il fatto è che, purtroppo non lo facciamo. Ti faccio un esempio: gli effetti speciali del mio ultimo film, sono stati creati da un gruppo di persone che hanno collaborato a film come The Cell, Fight Club, Batman. Ti verrebbe da pensare che si tratti di un’équipe americana, invece sono un ragazzo di Napoli, uno di Roma e il terzo di Milano. Questo per far capire che i talenti non mancano, gli strumenti ci sono, mancano soltanto i mezzi, i finanziamenti. Io credo che con una politica dell’investimento sarebbe bello far rinascere un cinema italiano di genere come c’era una volta. Quando noi facevamo lo “spaghetti western” lo esportavamo in tutto il mondo. In virtù di quei profitti, i produttori riuscivano a finanziare il cinema d’arte, il cinema artistico. Oggi invece tutto viene delegato o al cinema autoriale o a quello commerciale. Quindi non c’è molta scelta. Penso al cinema d’animazione, per esempio: Bruno Bozzetto ha fatto dei film che sono passati alla storia dell’animazione. Oggi, a parte pochi e rari casi (penso ad Enzo D’Alò, che ha fatto delle cose molto importanti), non c’è sufficiente investimento nel mondo dell’animazione, nelle nuove tecnologie, nel tre D… Quindi pochi pensano al mercato del cinema per i bambini. La fantascienza, ancora… Nessuno ci pensa alla fantascienza, al thriller… Dopo Dario Argento, che è un culto in tutto il mondo, per quel tipo di genere cinematografico non abbiamo più creato grosse espressioni in questo senso, proprio perché non si è finanziato quel tipo di arte che è indubbiamente un’arte molto costosa, fatta di effetti speciali e digitali sulle scene, e via dicendo. L’immagine costa molto cara.  

Un'immagine dell'ultimo spot di D'Alatri, divenuto tormentone estivo del 2002

Ti faccio un ultimo esempio: il mondo della pubblicità e dei videoclip, in Italia, riesce a essere competitivo con i mercati internazionali, e riusciamo a farlo benissimo pur non dovendo emigrare all’estero. Credo che il nostro cinema possa diventare competitivo nei mercati internazionali quando la smetteremo di avere paura, o meglio, quando i finanziatori la smetteranno di avere paura. Ci vuole, in questo caso, un po’ di fiducia da parte dello Stato che dia la possibilità, attraverso leggi adeguate, agli investitori di investire nel cinema. Solo a questo punto, credo, che si potrà sperare in una rinascita del cinema italiano. Noi chiaramente non possiamo competere con la cinematografia americana, da un certo punto di vista; una cinematografia industriale al cento per cento, fatta appositamente per travalicare il mondo. Però noi abbiamo una prerogativa: facciamo del cinema umanistico, noi parliamo e cerchiamo di conoscere l’essere umano. Riusciamo ad analizzare la figura dell’essere umano anche in contesti che possono essere di genere. Lo “spaghetti western” italiano, che fu erroneamente considerato un cinema di serie B, parlava di esseri umani e di grandi tematiche. Non a caso i film di Sergio Leone avevano una continuità con quelli di Kurosawa. Credo che una delle grandi peculiarità del cinema europeo sia quello di poter essere fortemente competitivo con il cinema americano a livello di capacità di contenuti, più alti e più forti.

MPB: Parliamo un po’ di lei. Ha incominciato come attore, da giovanissimo, e passato poi alla regia pubblicitaria, per poi creare un paio di videoclip. Ci racconti del suo background e di come è diventato un affermato regista cinematografico…

AD: Io ho incominciato con la pubblicità. Anzi, ho incominciato come attore, da giovane, anzi, da bambino. Ho lavorato fino a circa vent’anni davanti alla macchina da presa. Poi, negli anni Settanta, quando appunto il cinema italiano si esprimeva al suo peggio, diciamo, ovvero erano i tempi delle cognatine, dei pierini, delle giovani con le cosce lunghe, mi sono inserito nell’ambiente.

MPB: L’epoca dell’italian trash, che per altro è materia studiata alla facoltà di Storia del Cinema all’Università di Santa Barbara.

A.D: Come vedi non c’è mai fine… Però, era un cinema che non mi dava soddisfazioni, nel quale non mi riconoscevo. La pubblicità era un territorio che si stava evolvendo, il terreno era in fermento. Si stava passando dal carosello al linguaggio veloce. Rimasi affascinato da questo mondo e incominciai a produrre dei lavori anch’io, come assistente alle scene. Poi sono passato all’aiuto regia, poi ancora alla regia pubblicitaria e dalla regia di stampo pubblicitario, dopo una decina d’anni, ho incominciato a fare cinema. Quindi si parla di un evoluzione fatta di gavetta. Ho respirato sempre questo lavoro. Obbligato quasi, proprio perché quando incominciai io, il Centro sperimentale era chiuso, quindi non ebbi la possibilità di studiare cinema. Posso essere considerato un po’ un autodidatta. Però, avendo avuto dei grandi maestri – ho lavorato con De Sica, Pietrangeli, Zurlini – ho conosciuto un po’ quel mondo che purtroppo non c’è più, imbalsamato da quei grandi fari, che hanno dato tanto alla cinematografia italiana. Rispetto al futuro, ho ripreso a fare pubblicità, poiché con Casomai sono rimasto fermo un anno. Mi sto riavvicinando alla pubblicità. Proprio in questi giorni ho girato alcuni spot. Sto però anche ricominciando a scrivere un prossimo progetto. Vorrei essere più veloce di quanto sono stato in passato. Causa mia sicuramente. Ho fatto un film ogni quattro anni, per problemi proprio industriali, non artistici. Vorrei riuscire a mettere in cantiere un film al più presto… magari a Trieste.

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Alessandro D'Alatri nasce a Roma il 24/2/1955.
Inizia la sua attività nello spettacolo all'età di otto anni, recitando in teatro, cinema e televisione con Visconti, Strehler, De Sica, Pietrangeli, Zurlini, Bolchi e altri prestigiosi autori.
Il suo impegno dietro la macchina da presa inizia in pubblicità verso la fine degli anni settanta, dapprima come assistente alle scene e costumi per poi divenire aiuto di alcuni tra i più importanti registi pubblicitari nazionali ed internazionali: Giulio Paradisi, Enrico Scannia, Alfredo Angeli, Rick Levine, Bruce Dowad, Dick McNeil…
Prima di passare alla regia pubblicitaria matura per un anno l'esperienza di producer per poi esordire nel 1984.
Da allora fino ad oggi gira un centinaio di spot, molti dei quali lo portano a ottenere i più grandi riconoscimenti nell'advertising internazionale (Cannes, New York Film Festival, London Film Festival, Clio, Moebius, Epica, etc…) e altrettamti riconoscimenti nazionali (Anipa, Art Directors Club, Sportitalia, etc…)
Nel 1991 esordisce nella regia cinematografica con il lungometraggio “Americano Rosso” con cui vince il David di Donatello e il Ciak d'oro per il miglior esordio cinematografico dell'anno.
Nel 1993 gira “Senza Pelle”, di cui è anche autore del soggetto e della sceneggiatura. Il Film debutta con clamorosa accoglienza al festival di Cannes nella Quinzane des Realizateur, vince il Globo d'oro, il Miami Film Festival e il Nastro d'argento e il Ciak d'oro per la sceneggiatura. Oltre ad avere un rilevante riconoscimento di pubblico e di crititca, “Senza Pelle” viene venduto in più di venti paesi e conquista un notevole successo televisivo.
Nel 1995 trascorre un anno negli Stati Uniti dove scrive la sua prima sceneggiatura in inglese “Bravo Randy”.
Nel 1996 gira un documentario in bianco e nero per Massimo Osti dal titolo “Ritratti”, uno special televisivo per Tele+ sulla figura artistica di Sergio Citti (presentato al Festival di Locarno) e un documentario per conto dell'Unicef sulla prostituzione infantile in Thailandia (Rai) dal titolo “Il prezzo dell'innocenza” (presentato al London Festival nel 1996).
Nel 1997 scrive e realizza il suo terzo film “I giardini dell'Eden”. Il Film viene presentato in concorso al Festival di Venezia 1998 e in quell'occasione vince il premio “La Navicella”. Riceve altri numerosi riconoscimenti tra cui il Premio SIAE per la migliore sceneggiatura e come miglior film ottiene il premio De Sica come regista.
Nel 1998, ha realizzato una puntata (“Dio in tv”) per il programma culturale televisivo della Rai “Alfabeto Italiano” (presentato al Festival di Venezia).
Collabora da alcuni anni con il Centro Sperimentale per il corso di recitazione.

Filmografia

1991
Americano Rosso – Fabrizio Bentivoglio, Burt Young, Valeria Milillo, Sabrina Ferilli
Distribuzione Warner Bros
1994
Senza Pelle – Kim Rossi Stuart, Anna Galiena, Massimo Ghini.
Distribuzione Istituto Luce
1998
I Giardini dell'Eden – Kim Rossi Stuart, said Tagmaoui, Boris Terral, Kassandra Voyagis
Distribuzione Medusa

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