Attrice per caso

Accompagnando un amico per un provino, all’età di 14 anni, Diane Fleri si ritrova nel cast di Come te nessuno mai di Gabriele Muccino.

Diane Fleri

Attrice per caso
intervista a cura di
Jimmy Milanese

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Accompagnando un amico per un provino, all’età di 14 anni, Diane Fleri si ritrova nel cast di Come te nessuno mai di Gabriele Muccino.

Diane Fleri

Nel 2007 si fa notare con Mio fratello è figlio unico, dove interpreta la fidanzata prima di Riccardo Scamarcio, poi di Elio Germano, due fratelli divisi dalla politica. Tra i suoi ultimi lavori, nel ruolo della professoressa di francese, c’è la partecipazione nella miniserie TV I Liceali, assieme a Giorgio Tirabassi e Claudia Pandolfi.

Jimmy Milanese (JM): Salutiamo Diane Fleri a Maremetraggio. La prima domanda che ti vorremmo fare è come nasce la passione per il cinema, da dove nasce, e se c’è qualche precedente in famiglia?

Diane Fleri (DF): In famiglia non c’è nessun precedente anzi, sono vista come un alieno. Fin da bambina ho amato tutto ciò che riguarda il teatro, il cinema, la danza, il pianoforte, passioni che ho praticato sin dall’infanzia; poi è avvenuta come una specie di selezione artistica naturale e mi sono interessata sempre più al teatro e alla recitazione. Non pensavo al cinema come a un lavoro, non ci pensavo assolutamente, era per me un gioco accanto a quella che doveva essere la mia vita… Sono iscritta tuttora a Scienze Politiche, riesco a dare un esame ogni tanto (ride ndr), però è ovvio che a oggi questo è il mio lavoro e vorrei che lo fosse per tutta la vita, quanto più riesco a farlo. Anzi, finché io non arrivi al punto di ritenermi tanto soddisfatta da aver bisogno di passare ad altro o di produrre altro. Nasce dal bisogno di esprimersi, dall’amore per tutto quello che sono i contenuti, le emozioni della vita, dalla voglia irrefrenabile di vivere, che è in qualche modo lo strascico di un modo d’essere, credo.

JM: Come è stato il primo contatto con il cinema, nella pratica?

DF: In realtà, ho incontrato una persona, Francesca Borromeo. Ho fatto per caso un provino per il film di Gabriele Muccino Come te nessuno mai… per caso, giuro, accompagnando un amico – si tratta proprio di una storia di quelle da favola, in cui tu non cerchi nulla – anche se comunque facevo e studiavo teatro. Dunque accompagno questo amico e Laura Muccino, che stava facendo i casting lì, mi chiede se non voglio fare anch’io il provino. Io non sapevo neanche che cosa fosse e rispondo “no, no, io ho solo accompagnato un amico”… finché a un certo punto mi ritrovo davanti la telecamera con Gabriele Muccino a parlare delle scarpe che avevamo, perché io non avevo portato nulla, o delle serate che potevo fare. Avevo qualcosa come quattordici anni.

Diane Fleri

Faccio quell’esperienza, Come te nessuno mai, vivendola come un divertimento e niente di più, senza cercare altro. Però, all’interno di quel set, avevo appunto incontrato questa persona che adesso è una mia amica, e che ha continuato a contattarmi per spingermi a fare altro, a riprovare provini, a entrare a fare cinema e televisione, inserendomi addirittura in un’agenzia. Mi chiama e mi dice: “Sai ci sono questi amici giovani che stanno aprendo un’agenzia, perché non passi a trovarli?”. E così ho fatto, di nuovo senza sapere nulla, e lì ho cominciato a fare provini che sono andati bene. È andato tutto molto velocemente perché appena sono entrata da loro mi hanno fatto un provino dietro l’altro, ogni tre giorni ne avevo uno praticamente. All’inizio ho avuto quindi questo momento di rodaggio, e a un certo punto, quando il primo è andato bene, anche gli altri hanno preso questa strada, e ho cominciato a lavorare abbastanza alacremente.

JM: Fino al punto in cui è arrivato Mio fratello è figlio unico di Luchetti, che è stato un grosso successo di pubblico, uno dei più bei film degli ultimi anni, abbastanza particolare: una storia che intreccia la politica ad una specie di resoconto famigliare. Come è stato lavorare in questo film?

DF: Per me, essendo iscritta a Scienze Politiche, è stato particolarmente interessante perché mi ritrovavo sui testi di università a studiare appunto il Sessantotto e tutti gli annessi. E poi è stato il debutto, forse, per questa carriera nella quale io ancora non credevo. Era un bel sogno, un bel gioco, ma finché non mi sono trovata lì a girare con Luchetti, Elio Germano o Scamarcio, non sapevo neanche chi fossero in realtà. Venivo da un anno a Parigi, dove ero andata a studiare teatro, e al mio rientro sono stata trapiantata proprio in un’altra realtà, è stato come entrare in un’altra dimensione in qualche modo. È stata anche una grande palestra, un lavoro molto formativo. Io comunque venivo dal teatro e non avevo quella tecnica che poi si impara sul campo. Come i due passi da fare a destra o a sinistra, quei movimenti molto precisi che ti richiede il cinema, mentre a teatro, ad esempio, avendo un quadro molto più ampio d’azione, ti puoi muovere liberamente. E queste mie iniziali difficoltà Daniele Luchetti le aveva capite e, di sua filosofia, o almeno in questo film, aveva deciso di dare grande libertà agli attori.

Ho potuto così lavorare con quello che mi apparteneva: una spontaneità, una libertà di movimenti, e anche di parole, che mi hanno permesso di arrivare a quello che, infondo, voleva lui. Infatti aveva questo modo di dire che era appunto: “Io vi faccio fare tutto quello che volete che voglio io” (ride ndr). Quindi da una parte mi potevo appoggiare a quello che già sapevo più o meno fare, e dall’altra ho imparato tantissimo perché era la prima volta che mi ritrovavo con delle dinamiche, dei limiti e degli stimoli che non conoscevo.

Diane FleriOltre a ciò, ovviamente, ho lavorato con un regista così diretto, così chiaro, così bravo che mi ha arricchita tantissimo in pochissimo tempo. Poi due attori come Elio Germano e Scamarcio sono figure professionali eccezionali, che ti danno anche un’energia completamente diversa, che hanno un modo di lavorare completamente differente dal mio ma complementare in quel film. Mi sono sentita una spugna che assorbiva da tutte le parti e cercava di fare tesoro di tutto quanto.

JM: Allo stesso momento sei passata anche alla fiction. Quali sono le differenze tra recitare in una produzione cinematografica e avere un ruolo abbastanza particolare, quasi da liceale, nella fiction?

DF: Non interpreto una liceale ma una professoressa di francese, supplente, in bilico tra il mondo dei professori e quello degli alunni perché obiettivamente più giovane, forse un po’ troppo giovane per avere quel ruolo lì. La fiction ha ritmi e tempi completamente diversi, e in un certo senso assomiglia ancor più ad una palestra perché ti rendi conto che devi entrare subito nel personaggio, essere efficace subito. Ci sono minori tempi di gestione, di comprensione, di prove, e questo è ovvio, è così. Devo dire la verità, in questa fiction in particolare le cose sono andate in modo un po’ diverso, rispetto a come credo la fiction si faccia di solito – sebbene la mia esperienza a riguardo sia poca – perché abbiamo lavorato comunque con un regista cinematografico, che è Lucio Pellegrini. Inoltre, non si trattava di una fiction che si dilunga in mille puntate da fare in pochissimo tempo, ma solo sei puntate di cento minuti ciascuna, quindi un tipo di produzione molto vicina a un film vero e proprio.

Direi che si è trattato più che altro di sei piccoli film, girati in un modo che si avvicina al fare cinema, anche se comunque si percepiscono una maggiore velocità e immediatezza. Quello che mi ha segnato di più è stato il rapporto splendido che ho potuto avere con Claudia Pandolfi, Giorgio Tirabassi e Lucio Pellegrini. Non vedo l’ora di iniziare di nuovo a girare la seconda serie, perchè la fiction è andata molto bene. Non sapevamo in realtà che cosa aspettarci e molte cose poi sono nate sul set, nelle relazioni, e tutto ha funzionato alla perfezione.

La grande differenza tra una fiction di questo tipo e un film è che, nel primo caso, lavori per sei mesi tutti i giorni, o quasi, insieme agli altri. Oltretutto, nell’ambiente “scolastico” si crea un rapporto quotidiano molto vero, molto bello… e molte cose che non erano scritte nella prima sceneggiatura si sono create spontaneamente sul set; come ad esempio il mio rapporto con Claudia Pandolfi, che era già scritto, ma che si è sviluppato oltre la sceneggiatura. Spero che la seconda serie riesca a sviluppare ciò che è nato, soprattutto al di là della sceneggiatura, nella prima.

JM: Qual è il personaggio, visto la tua giovane età e la carriera ancora all’inizio, che ti piacerebbe interpretare in una produzione cinematografica, che vedresti magari tagliato per le tue caratteristiche?

DF: No, ciò che cerco è proprio l’opposto.

Penso come ogni attore che ama veramente il proprio lavoro, vorrei fare qualcosa che sia lontanissimo da me. Stavo per dire la cattivissima… non voglio dire di essere buonissima, però, in qualche modo, vorrei fare o la violenta o la cupa, la malinconica, insomma il personaggio negativo, magari l’antieroe. L’eroe negativo sarebbe quello che più mi potrebbe interessare, divertire, e dal quale potrei apprendere tanto in questo momento.

JM: Mi vengono in mente alcune tue colleghe italiane. C’è qualche attrice in particolare all quale tu ti ispiri? Hai un modello, magari anche non necessariamente italiana?

Diane FleriDF: Difficile da dire, perché ciò che conosco non credo sia abbastanza e i modelli in questo momento potrebbero essere vincolanti. Io non mi sento arrivata a un livello di esperienza tale da poter dire che cosa voglio diventare, quale siano la mia strada o il mio modello. Per adesso, e forse proprio per il mio modo di essere, mi voglio tenere il massimo di panorama possibile, la massima ecletticità, la possibilità di fare ciò che mi interessa di più, e quindi avere un modello sarebbe riduttivo. Di attrici che apprezzo tanto ce ne sono, di registi anche… mi vengono in mente più che altro film, personaggi… nessuno cattivo però in questo momento!

JM: Per citare una cattiva a me viene in mente Bette Davis, non so se può essere quello il tuo modello di riferimento, ma spero di no…

DF: Stavo cercando un nome che non mi viene… Quei film francesi in cui c’è quella fantastica rossa che fa spesso personaggi duri… Isabelle Huppert. Obbiettivamente è l’opposto di me, non centra niente, probabilmente anche nel modo di recitare. Però quello stile duro, definito, rigido e passionale allo stesso tempo, ecco, è uno degli esempi, secondo me, di attrici più interessanti, con una presenza gigantesca. Poi, se andiamo nel passato, mi sono rivista per l’ennesima volta Colazione da Tiffany, e la cara Haudry Hepburn è proprio un mito per me, ho un amore per lei da quando ero bambina, come l’avevo anche per Rossella Hoara e mi ero vista Via col vento tipo quindici volte. Amo questi personaggi forti, sia del passato, sia del presente. Se vogliamo andare al cinema italiano, in Respiro abbiamo la splendida Valeria Golino. Adoro le attrici che hanno questa grande forza, questa grande passione.

JM: L’ultima domanda. Ti arriva una sceneggiatura, perché l’accetti e perché la rifiuti?

DF: La rifiuto se non mi piace, se non mi parla, se non entra nelle mie corde. Le mie corde però non indicano che cosa posso fare o non fare, più che altro sono corde d’interpretazione. Ci sono a volte delle sceneggiature che tu senti che hanno un linguaggio, il contenuto di cui parlano, o il modo in cui ne parlano, che non ti arriva, di cui non vedi la necessità, o l’interesse, o semplicemente la vicinanza. Mi può essere vicino qualcosa di completamente diverso da me perché in qualche modo lo capisco, rientra nel mio schema mentale e in quello che io posso percepire. Dunque accetto una sceneggiatura che mi piace, che mi parla, che mi emoziona da spettatore e da lettore.

Diane Fleri in scena

JM: Quindi chi ci sta dietro è abbastanza irrilevante. Puoi rifiutare una sceneggiatura, anche “ben prodotta”, perché non ti piace?

DF: Sì, sono al “punto in cui”. Ma anche in passato, quando non ero al “punto in cui”, ho sempre teso a rifiutare ciò che non mi piaceva, l’ho sempre fatto e ho sempre accettato, invece, quello che mi poteva piacere. Penso che sia una cosa che va al di là del punto al quale stai, tanto è vero che oggi mi trovo a fare delle cose magari senza soldi, in cui non c’è una grande produzione dietro, però nella quale credo per il livello della sceneggiatura, della regia, degli attori e via dicendo. Per esempio, ho fatto l’anno scorso un’opera prima di Guendalina Zampagni, una storia molto bella, di un film che forse si chiamerà Quell’estate, o forse in un altro modo, non lo so, che obbiettivamente ha una piccola produzione dietro e non si sa bene dove andrà a finire. I soldi erano molto pochi ma il progetto molto carino. Io sono stata felicissima di farlo. Sicuramente è bello lavorare con produzioni tipo la Cattleya, con la quale ho fatto un film molto più coperto, molto più sicuro, bellissimo perché si trattava di una sceneggiatura che avevo scelto con tanto amore. Le condizioni erano completamente diverse, agiate. Insomma, è bello poter fare tutto purché piaccia.

JM: Come diceva qualche tuo collega, si fa un film per sopravvivere e un film invece per dare un piacere al cuore…

Diane Fleri intervistataDF: No, così sembra quasi che questo film della Cattleya di Lucini sia stato un film per sopravvivere. Assolutamente no. Sono stata fortunata a fare un film bello, ma in realtà sono tanti i bei film che ho fatto: quello di Lucini, con Luca Argentero, che è stato completamente coperto. Sono stata veramente molto fortunata, anche l’anno scorso, perché sono capitata su delle sceneggiature e dei lavori per film che ancora devono uscire e che mi son piaciuti tantissimo, in cui ho imparato molto. Il risultato di alcuni già l’ho visto, e sono molto felice. Poi, con Anna Rita Ciccone ho fatto anche un film a livello internazionale, ma alternativo e di cinema indipendente. Anche lì, pochi soldi, però con degli attori molto bravi; è stata una bellissima esperienza, e completamente diversa dalle altre due. Forse la ricchezza che trovo nel mio lavoro è proprio questa varietà che non va mai a diminuire di qualità. Spero di continuare così.

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