Piccola metafora dei tempi moderni

Mohsen Melliti, nato il 1 aprile 1957 a Tunisi. Esiliato in Italia. Ha collaborato con giornali e istituti di ricerca sulla situazione dei diritti umani e politi nei paesi arabi.

Mohsen Melliti

Piccola metafora dei tempi moderni
intervista a cura di
Jimmy Milanese

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Jimmy Milanese (JM): Siamo con Mohsen Melliti, presente a Maremetraggio con Io, l’altro. Ci puoi spiegare di cosa tratta questa storia?

Mohsen Melliti, regista di Io, l'altro
foto di Giulio Donini ©

Mohsen Melliti (MM): È una piccola metafora su questi tempi moderni, sulla paura dell’altro, sulla guerra al terrore che si è scatenata e che tutto il mondo subisce, sia in Oriente che in Occidente. È un clima teso nel quale non ci si fida neanche del proprio vicino. Ho cercato quindi di realizzare una metafora di questa situazione.

JM: Nel film libertà e oppressione sembrano viaggiare di pari passo, esprimendo una condizione umana che porta verso la distruzione, la catastrofe. Come ti è venuta l’idea di utilizzare un’imbarcazione come metafora di un percorso auto–distruttivo?

MM: Ho utilizzato un’imbarcazione in mezzo al mare perché penso che qualsiasi essere umano, uomo o donna che sia, pensa sempre di essere al centro di qualcosa. Mettendolo in mezzo al mare, invece, risulta essere al centro di niente. La situazione inevitabilmente lo ridimensiona: lo rende piccolo, mette in evidenza tutti i suoi lati, sia positivi che negativi, lo ridefinisce intellettualmente e anche emotivamente. In mezzo al mare hai libertà di spazio, di viaggiare verso questa immensità ma, al momento stesso, si ha la paura di essere piccoli ed incastrati. La barca, in questo caso, è un luogo, una metafora, un grande spazio di libertà e, al contempo, una prigione.

JM: Prendendo spunto da ciò che è stato detto durante la conferenza stampa, cosa c’è di metaforico e cosa di reale nel tuo film?

MM: La maggior parte del film, come già detto, è una metafora. Di reale c’è poco. Un esempio sono le notizie alla radio di attentati e guerre dovunque, notizie dalle quali siamo stati bombardati per anni. Purtroppo questo è vero. Il resto è tutta una metafora sulle condizioni dell’essere umano e di come può divorare se stesso.

Mohsen Melliti sul set di Io, l'altro

JM: Parlavi proprio della radio come variabile interveniente che va a scardinare questo fragile ordine. Il suo ruolo nel film potrebbe essere emblema di come la società in sé sia mutevole ad evidenza della fragilità intrinseca della stessa e di come sia facile che le cose cambino, basti pensare, ad esempio, all’undici settembre?

MM: Purtroppo l’informazione, in questo caso, ha giocato un ruolo importante: prima di qualsiasi guerra, naturalmente, ci sono le campagne di informazione, quella che viene chiamata propaganda. Quest’ultima influisce su tutta la società, sul mondo intero, specialmente adesso che tutto è globalizzato: i grandi network sono capaci di influenzare il resto del mondo, dell’umanità. Per questo i due personaggi sono semplici, sono persone del popolo senza grandi sovrastrutture. La radio ad un certo punto diventa la protagonista: lei stessa capitana la barca e guida verso la distruzione questi due personaggi.

JM: Certo. D’altra parte, però, c’è questo desiderio quasi gramsciano di raggiungere un porto che non c’è mai.

MM: Ciò ha anche una radice nel pensiero greco e, propriamente, in quello dell’essere umano alla perenne ricerca della salvezza, sia quella che sia: la salvezza dalla morte o in senso generale. L’essere umano, purtroppo, non ha mai accettato l’idea della sconfitta in quanto tale, a prescindere dalle sue motivazioni. Ciò fa parte della sua stessa natura: non ha mai accettato l’idea che deve morire. Questa è la chiave.

JM: Oltre che regista, sei soprattutto scrittore: qual è la distanza fra quello che hai scritto nel libro ispiratore del film e quello che sei riuscito a trasporre cinematograficamente?

MM: Sono due linguaggi, due dimensioni completamente diverse. La letteratura mi dà spazio di libertà, forte emotività intellettuale e, personalmente, sono più libero in quanto non devo fare trattative con nessuno. Il cinema è un linguaggio che deve far vedere, nonostante magari si possa avere un’idea intimistica, purtroppo devi condividere con gli altri sia positivamente che negativamente. Questa è la differenza. Nella scrittura io prendo la pagina e scrivo.
Naturalmente è difficile trasportare tutto al cento per cento.

Raul bovaJM: La collaborazione con Raul Bova com’è nata?

MM: Io e Raul Bova ci conosciamo da molti anni e lui stava cercando di fare qualcosa di diverso dal solito ruolo da sbirro, anche perché io non potevo offrirglielo. In più gli piace lavorare con me e ci siamo aiutati a vicenda: lui è una star e io gli ho dato un ruolo inusuale per la sua carriera. È stato un grande aiuto reciproco in questo senso.

JM: C’è stato qualche problema di produzione o distribuzione del film? Sai se e come verrà distribuito?

MM: Avevo la distribuzione già prima di iniziare a girare: alla 20th Century Fox avevano letto la sceneggiatura ed erano rimasti molto incuriositi. Hanno chiesto di seguire passo dopo passo il film. Naturalmente ci sono stati verdetti di grande entusiasmo ma anche di grande contrasto. Essendo una grande distribuzione americana, volevano che la pellicola fosse il più statunitense possibile, io invece volevo fare di testa mia: è stata una grande lotta, in senso diplomatico. Siamo stati intelligenti nel non usare mai il coltello fino in fondo. Come mio primo film sono contento: oltre ad esser stata fatta una buona campagna di promozione viene distribuito ottimamente.

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