Per non dimenticarti

Ex cantante jazz, figlia d’arte, regista determinata, Mariantonia Avati esordisce a quarant’anni sul grande schermo.

Maria Antonia Avati

Per non dimenticarti
intervista a cura di
Cristina Favento

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Ex cantante jazz, figlia d’arte, regista determinata, Mariantonia Avati esordisce a quarant’anni sul grande schermo.

Mariantonia Avati

Cristina Favento (CF): Lei presenta a Maremetraggio il film Per non dimenticarti, lungometraggio d’esordio che, però, non è certo la prima esperienza sul set. Volevo parlare un po’ di questo percorso: il film è arrivato dopo parecchi anni rispetto ai primi contatti con il mondo del cinema, come mai la decisione di aspettare tanto prima di buttarsi?

Mariantonia Avati (MA): Perché, conoscendo molto bene questo ambiente e questo mestiere, avendolo indirettamente frequentato sin da piccola, ho seguito il consiglio di mio padre, ossia di espormi nel momento in cui mi sentissi pronta a farlo. La mia gavetta è iniziata a diciott’anni lavorando come assistente, coma factotum in produzione, ricoprendo i ruoli che si credono più umili ma che invece sono altamente formativi.

Poi qualche anno fa ho girato dei documentari monografici che parlavano di alcuni personaggi del Novecento e ho avuto la possibilità di girare una soap opera in 185 puntate di trenta minuti ciascuna. È stata un’esperienza molto formativa.
Ho aperto una produzione cinematografica con mio marito, abbiamo prodotto dei film e sono infine arrivata in modo naturale e giusto, per la mia indole, a debuttare.

Locandina del film Per non dimenticarti, di Mariantonia AvatiCF: Il film nasce da un spunto autobiografico e parla dell’esperienza di nove donne che si ritrovano unite nel condividere un’esperienza molto forte: sono in ospedale, in attesa del parto, della maternità. Volevo indagare la sua esperienza personale e capire come si rispecchia nel film. Si percepisce una vicinanza al personaggio di Nina, mi chiedevo però se c’è qualcosa di lei anche in ciascuna delle altre?

MA: No, io fondamentalmente sono Nina, al di là della cronaca dei fatti, che sono tutti realmente accaduti. Ho vissuto questo periodo in ospedale con la curiosità di conoscere le altre e ritengo sia un film abbastanza democratico, ho cercato di dare ampio spazio, a parte l’epilogo che è tutto dedicato alla storia della Caprioli. Ho cercato di dare giusto spazio e dignità ad ogni ruolo, raccontandolo all’interno di una parabola con un inizio e una fine. Non credo che ci sia qualcosa di me in tutti i personaggi.
Tra l’altro proprio quelli che mi sono più distanti, come ad esempio il personaggio di Margherita, la ragazza che partorisce il bambino di colore, che sulla carta era il personaggio che temevo di più, in realtà sono quelli che forse sono venuti meglio.

CF: La sceneggiatura è stata scritta assieme a suo fratello Tommaso, com’è lavorare assieme? Come avete lavorato per costruirla?

MA: Con lui avevo già lavorato precedentemente e quindi ci conosciamo anche professionalmente. La cosa fondamentale è che gli ho chiesto di seguirci anche durante le riprese perché volevo che prendesse parte ai fuori ciak, che seguisse l’evolversi dei rapporti per inserire eventualmente anche qualcosa di diverso in sceneggiatura. È stato un work in progress continuo.
Ci siamo divertiti e poi ci sono state, come in tutti i rapporti professionali, anche delle divergenze d’opinione. Il tutto però partendo da una base e un’affinità comuni.

CF: Il film, pur facendo riferimento alla sua esperienza personale, è stato retrodatato al 1947. Ho sentito anche di questi ultimi progetti a cui si dedicherà e si parlava di anni Ottanta, del 1977. Volevo capire questa scelta costante di non confrontarsi con la contemporaneità ma piuttosto con dei periodi storicamente pregnanti?

MA: Perché gli anni della guerra, del dopoguerra, gli anni di piombo, sono gli ultimi anni in cui credo le nostre coscienze e i nostri animi erano in qualche modo vivaci. Adesso, probabilmente è anche un limite mio, non riuscirei a raccontare, a focalizzare la passione che c’è nella mia generazione, fra i miei coetanei, capire bene che cosa vogliamo. Vedo degli sguardi abbastanza appagati da delle cose che mi interessano poco. È un problema mio perché vedo dei miei colleghi che invece raccontano il quotidiano benissimo, il 2007, mentre a me non incuriosisce, non c’è nulla che mi stimoli. Quindi non è un ripiegamento al passato perché sono una fanatica del ricordo, non è così: nel 46 per fortuna non esistevo ancora. Però cerco sempre nel materiale di repertorio, nei filmati come nelle fotografia, un guizzo, una luce negli occhi, un qualcosa.

Le cose più belle che ho visto nei filmati sono gli sguardi degli uomini e delle donne il giorno dell’entrata degli americani e della liberazione di Roma. Non gli ho più rivisti in nessun altro contesto, nemmeno quando l’Italia ha vinto il campionato mondiale di calcio. Non quindi saprei a cosa aggrapparmi (nel contemporaneo, ndr), ho bisogno di cose probabilmente eclatanti.

CF: Questo film si concentra moltissimo sulle figure femminile e sentito molto dalle donne, le figure maschili, al di là del discorso su maternità e paternità, sono più defilate e con delle connotazioni un po’ più negative. La figura della donna è veramente centrale, è quella che si assume la fatica, la responsabilità, che deve trovare il coraggio e la forza per fare da perno alla realtà in cui vive, alla famiglia? Volevo capire come è stato vissuto questo ritratto al femminile…

Ettore Bassi del film Per non dimenticarti, di Mariantonia AvatiMA: Ma è così, credo allora come oggi. L’uomo per fortuna sua, non c’è un giudizio negativo in questo, per il fatto che lavora e ha una disponibilità di tempo più amplia per star fuori, ha comunque una “via di fuga”. È un termine tremendo perché l’intento non è fuggire le proprie responsabilità genitoriali, però un uomo ha la possibilità di dividersi in modo più morbido. La donna no, non ce l’ha questa opportunità. Le donne oggi vivono una grossa difficoltà. Non so quanto andremo avanti nelle generazioni dopo la mia a cercare di lavorare, di fare tre figli toniche, di essere sempre con la pelle tirata, toniche, vestite bene. Ci sono dei modelli che sono impossibili da seguire e invece ti viene detto che si può fare. Io ci sto provando, ho quarant’anni e sono già massacrata, non so quanto reggerò!

L’uomo non ne esce male, il ritratto è quello dell’uomo com’era all’epoca, sicuramente coinvolto nella famiglia, innamorato della propria moglie, dei propri figli, disponibile, però era un uomo che viveva molto fuori mentre la donna viveva in casa. I figli crescevano con la madre, le nonne, le zie. L’uomo viveva fuori, usciva e tornava la sera, avendo compiuto il proprio dovere di mantenere la propria famiglia, di difenderla, proteggerla, quindi anche con i suoi meriti. Certamente non si può dire che maternità e paternità fossero vissute allo stesso modo sin dal primo momento.

CF: Una domanda d’obbligo, che le avranno già fatto in tanti, per un figlio d’arte: lei ha più volte dichiarato che si discosta dal modello paterno perché ha dei riferimenti altri ma in che cosa si è ritrovata comunque favorita e quali sono, invece, gli svantaggi, che molto spesso vengono taciuti?

MA: Punti di riferimento altri ne ho perché sono una persona che si guarda attorno ma professionalmente, oltre ovviamente che dal punto di vista sentimentale, mio padre è stato un fortissimo riferimento. I vantaggi sono tutti quelli che potete immaginare: io godo di un’interesse, di una curiosità nei miei confronti che probabilmente non avrei se mi chiamassi Genoveffa Pinturacchio.
Poi c’è il vantaggio di esser cresciuta all’interno di un ambiente e di conoscerne i meccanismi nel dettaglio e quindi di essere abbastanza padrona del mestiere.

Gli svantaggi sono gli stessi, cioè conosci talmente bene il mestiere da capire che c’è poco da illudersi, poco da sognare e abbandonarsi a voli pindarici. Purtroppo ho un po’ di quel cinismo che mio padre agli esordi non aveva perché veniva dalla provincia italiana e credeva che fare cinema fosse la cosa più bello e lo desiderava, lo sognava. Io lo conosco troppo bene e illudersi e sognare in certi momenti è difficile.

CF: Dal punto di vista tecnico è una prova registica affatto scontata girare quasi interamente un film in un ambiente unico. Un lavoro quindi basato soprattutto sulla recitazione, sui primi piani, i piani d’ascolto. Quali sono state le difficoltà e il perché di questa scelta?

Mariantonia Avati sul setMA: La scelta è perché volevo pormi in una condizione tecnica complicata. Girare con tanti attori in un’unica stanza vuol dire mettersi alla prova in modo serio: vuol dire cercare di girare mai la stessa inquadratura, di non far annoiare mai il pubblico ricordandogli che si è sempre nello stesso posto, cercare di variare e movimentare il più possibile. Tutto quello che avviene fuori quando giri un film in esterno con grandi possibilità, in questo caso devi dare l’illusione di crearlo internamente.
La cosa che mi fa più piacere è proprio quando mi viene detto che non pensi ad un film claustrofobico, non ti viene in mente che comunque è girato tutto in uno stesso ambiente. Credo sia uno dei piccoli successi che ho ottenuto grazie a questa operazione.

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