I bambini di Hendel giocano solo in cielo

Lorenzo Hendel nasce a Firenze nel dicembre 1950. Alla fine degli anni settanta si trasferisce a Perugia, dove lavora alla sede regionale della RAI a un progetto di documentazione della realtà sociale territoriale, pur senza perdere di vista la ricerca sui linguaggi della televisione e l’impegno costante nella…

Lorenzo Hendel

I bambini di Hendel giocano solo in cielo

intervista a cura di Jimmy Milanese

Per visionare il video (connessioni ADSL da 1 Mbps) è necessario installare un controllo ActiveX

Jimmy Milanese (JM): Lorenzo Hendel a Maremetraggio presenta il suo primo lungometraggio Quando i bambini giocano in cielo che è una produzione internazionale. È un lungometraggio atipico per la cinematografia italiana, vuoi raccontare di cosa si tratta?

Lorenzo Hendel (LH): Quando i bambini giocano in cielo lo definisco un dramma etnico, nel senso che c’è questa ambientazione antropologica di circa cento anni fa, alternata ad una storia italiana moderna.

scena del film

Si racconta il dramma di un ragazzo che ha un’infanzia tormentata e disastrosa, e che cerca di vendicare qualche sua avventura attraverso il contatto col mondo sciamanico. Questa vendetta non avverrà mai perché il destino dice no, e dicono no anche le nuove tendenze religiose, attraverso l’imposizione delle quali i missionari che hanno egemonizzato la Groenlandia scoraggiano l’uso della vendetta che chiaramente non è cristiana. Quindi, a mano a mano, la vendetta diventerà sempre più irrealizzabile, questo ragazzo diventerà cristiano e da vecchio incontrerà un bambino italiano, il quale è il bambino della storia italiana e moderna del film. Questo è il film raccontato in due parole.

JM: Come in un magnifico film neozelandese del 2002, al quale forse ti sei ispirato, che era Whale Rider, il tuo lungometraggio si occupa dell’umanità arcaica, e quindi della lotta per la sopravvivenza in una regione estrema della Groenlandia. Questo tipo di film è ovvio che sia carico di un simbolismo e un significato particolare, mi riferisco ad esempio al risveglio dell’uccellino attraverso un sospiro, oppure al potere della parola, più volte evocato nel film. Ma come nasce questo interesse abbastanza particolare per l’antropologia?

LH: In realtà ho fatto l’antropologo prima di fare il documentarista. Però facevo un’antropologia che studiava la nostra società moderna, non quella di altre culture. L’interesse per le culture ce l’ho sempre avuto nel sangue; tra l’altro questo film è dedicato a Tullio Seppilli, che è stato il mio primo maestro di antropologia. Ho proprio scritto – non so se l’avete letto nei titoli – dedico questo film a Tullio Seppilli che mi ha insegnato per primo l’interesse per le culture e l’amore per le differenze, cioè la capacità di vedere che tutto ciò che per noi è considerato ovvio per altri non lo è. Una ricerca delle differenze, non delle analogie. Questo mi ha un pochino sostenuto. Ho fatto documentari per tanti anni, e molti di essi antropologici, questo forse si vede. Mi sono posto davanti a questa cultura con l’occhio del documentarista che cerca di dare una visibilità e una trattazione affascinante. Credo che dare questa caratteristica di fiction sia stato più forte che non fare un documentario, per questo è venuto fuori il film.

JM: Per un regista l’opera prima è un “biglietto da visita” abbastanza importante, soprattutto per reperire finanziamenti. Quindi, di solito, tratta un tema abbastanza abbordabile, molto plastico, tu invece ti sei spostato completamente e hai trovato un soggetto molto particolare, un affresco sul mutamento sociale. Quali sono state le difficoltà nella distribuzione e qual’è stata l’accoglienza da parte del pubblico di cui hai parlato prima?

LH: Sì, la tua domanda in realtà ne contiene due. Una è la questione opera prima, per la quale solitamente, come tu affermi, si trova qualcosa di più minimalistico, io infatti dico sempre che per evitare il minimalismo sono incorso nel massimalismo, e la mia è sicuramente un’operazione massimalistica in quanto ambiziosa e senza dubbio assolutamente anomala. Considera che è anomala anche l’età, di solito uno l’opera prima la realizza molto prima, mentre io ho oltre 50 anni di età, per cui ho pensato che dopo 25 anni di documentari non avesse senso fare un’opera prima raccontando del “cortile di casa” o della propria città. A questo punto tanto valeva raccontare qualcosa di assolutamente anomalo. In questo senso ho fatto forse il passo più lungo della gamba, ma poi alla fine il passo sono riuscito a farlo. Quello che tu giustamente dici che manca è invece l’aspetto distributivo. Non nascondo che forse parte della difficoltà riscontrata nella distribuzione sia legata all’anomalia dell’opera prima. Perché se tu fai un’opera prima oggi, per intenderci, come il mio amico Gabriele Muccino – che pure è una persona che rispetto assolutamente – è più facile accettarla, perché racconta comunque la tua vita, il tuo scenario quotidiano, se invece la fai riferita a una cultura così lontana, uno non se l’aspetta. Secondo me non se l’aspetta nemmeno come opera seconda, in quanto ho trovato alcune difficoltà anche nei festival internazionali ai quali abbiamo partecipato. Siamo stati a Berlino e a Cannes, per esempio, dove forse il cinema italiano te lo immagini diverso. Ma abbiamo riscontrato una sorta di domanda e offerta di opere più o meno rispondenti a quella che è l'immagine del cinema nazionale. Devi realizzare un’opera che sia riconoscibile come italiana, ma io sono contento che il mio film non sembri italiano, anche se è più difficile distribuirlo sia in Italia che all’estero, perché all’estero uno si immagina che gli italiani facciano film solo di un certo tipo. Questo non sembra italiano, per cui paradossalmente proprio all’estero viene meno recepito. Quando tu infrangi degli schemi chiaramente è più difficile avere una corrispondenza.

Lorenzo HendelJM: Per quanto riguarda la distribuzione, come sta andando? Parlavi prima di queste difficoltà e quindi del fatto che il tuo film sia distribuito solo in Groenlandia o in Danimarca, mentre in Italia trova un po' di ostracismo.

LH: Sì, noi lo abbiamo fatto vedere ad alcuni distributori e hanno detto che era bello, ma non se la sentivano di rischiare. Considera che la legge sul cinema, che stabilisce i finanziamenti per la produzione, stabilisce finanziamenti anche per la distribuzione. Tuttavia ci sono alcuni film, credo siano una trentina in tutto, che hanno avuto i fondi per la produzione e che hanno aspettato diversi anni a farli – anche noi abbiamo aspettato diversi anni, non c’è un limite, non era proibito aspettare – rimanendo poi senza i fondi previsti dalla legge per la distribuzione, in quanto quest'ultimi si sono esauriti. Quando hanno rifinanziato la distribuzione hanno finanziato solo i nuovi progetti approvati in sede produttiva, condannando gli altri film, già prodotti, nella terra di nessuno, privati dai vecchi fondi ed esclusi dalla nuova legge, rimasti per cui senza fondi. L’abbiamo anche fatto vedere a distributori privati che non potevano quindi contare sul sostegno pubblico, e dovendo rischiare investimenti privati non se la sono sentita. Non me la sento nemmeno di criticare onestamente. Investivano soldi loro, posso pure capire che sia un problema. Altre distribuzioni in Italia non ci sono, per cui fino ad ora siamo fermi. Ripeto, spero che ci possa essere uno sbocco nel mondo dell’home video, certo non è come proiettare il film in sala. Un film così, che si affida molto anche allo spazio degli scenari naturalistici, ai paesaggi grandiosi, sul piccolo schermo è un peccato.

JM: Eppure l’esperienza è stata interessante, come dicevi prima. Ed è stato interessante riprendere questi attori assolutamente non professionisti, ma capaci di interpretare sé stessi e addirittura contribuire positivamente alla riuscita del tuo film. Puoi dirci qualcosa su questo aspetto del film?

LH: Sì, quello che dicevo prima lo posso ripetere, gli attori groenlandesi sono stati per me un grande spunto di conoscenze professionali, ma anche umane. Forse non hanno la scheda della simulazione nel loro pensiero, non riescono a fingere, non dicono quasi mai bugie, e quando recitano ti raccontano la verità in modo crudo e senza artifici, questo rende la recitazione straordinaria. I provini stessi sono stati straordinari, li vedi che cominciano a simulare, ma non ci riescono. Una cosa che non ho detto, ma dico adesso in esclusiva, riguarda il piccolo Kipingi, il bambino che aveva 6-7 anni. La prima scena che girammo fu la scena in cui il cattivo gli strappava la coscia di uccello per dare una botta alla madre. Lui doveva piangere. Stavamo facendo le prove di questa scena quando il bambino cominciò a piangere perché gli avevo detto che quella era una situazione in cui lui doveva piangere. La violenza che vedeva nel cattivo gli provoco un pianto talmente reale che dopo non fu più possibile fermarlo e abbiamo dovuto interrompere la scena. Come dire: “Io faccio finta di piangere, però se io piango, piango davvero, dopo non posso più fermarmi”. Perché proprio non c’è questa tendenza artificiale, loro piangono, ma dopodiché non si fermano più perché è un pianto che diventa vero. Questo è molto stanislaskiano come approccio, loro fanno le cose che tu gli chiedi, non è che non sanno simulare, però nell’attimo in cui lo fanno non è più finto, diventa vero, è una recitazione straordinaria e perfetta se vogliamo. Ti dice: “Io continuo a piangere, non mi dovevi chiedere di piangere, un pianto non si può interrompere con un pulsante”

JM: In questo lungometraggio c’è un passaggio narrativo che racconta delle coscienze di questi cacciatori groenlandesi intaccati dal progresso, e questo progresso viene simboleggiato attraverso un crocifisso.

Ovviamente è un passaggio abbastanza delicato. Cosa intendevi con questo? Non hai rappresentato il progresso con, ad esempio, la costruzione di industrie, edifici, lo sfruttamento del territorio, ma attraverso il crocifisso. Forse questo passaggio ti potrà costare qualcosa. Ne sei conscio?

LH: Tu giustamente hai notato lo scambio del crocifisso. Ma più che il progresso è il cambiamento ciò che si racconta in questa simbologia, un cambiamento che scorre nel tempo e che soltanto dopo sapremo se è veramente un progresso oppure no. Al di là di questo specifico momento, tutto il film è costruito su questa domanda: “Fino a che punto modificare completamente la loro religione e abbracciare la religione cristiana è stato un progredire spirituale”. Io sono stato attento a non dare un giudizio affrettato, non voglio dire che il cristianesimo abbia distrutto la loro cultura, ma nutro dei sospetti, penso che questo innesto sia stato perlomeno doloroso e temo che li abbia costretti a rinnegare le loro radici ancestrali. Non voglio neanche dire, con l’occhio dell’oggi, che la religione sciamanica fosse una cosa stupenda. Pongo dei problemi e basta. Tu mi domandi se questo mi costerà qualcosa, credo che porsi delle domande non dovrebbe costare nulla, ma tutti dovrebbero essere interessati ad ascoltare delle risposte. Ripeto, non c’è ideologia nel mio film, io non dico: “Guardate, vi faccio vedere che i missionari hanno distrutto la cultura, ecc…” non è un film dimostrativo. Pongo delle domande e penso che i primi a essere interessati a delle risposte dovrebbero essere coloro che abbracciano una religione, o coloro che addirittura praticano o in qualche modo propagandano una religione. Non è un film con cui mi voglio schierare, io credo che fare delle domande sia interessante per tutti e spero che con quest’ottica “ecumenica” ci possa essere un dialogo anche con chi pensa che i missionari siano stati importanti. Si può dialogare, credo.

scena del film

JM: Una domanda sulla sceneggiatura. Come parlavamo prima, hai realizzato un'opera piuttosto atipica, la quale viaggia su due binari paralleli, narranti due storie distinte che a un certo punto si incontrano. Tuttavia da una parte, come dicevi tu, venendo da una tradizione da documentarista ed essendo tra l'altro un antropologo, la parte antropologica del film ti è riuscita molto bene. Mentre, per la parte più “moderna” hai ricevuto delle critiche. Cosa ne pensi?

LH: Delle critiche le ho ricevute, qualcuno addirittura ha scritto che la parte moderna ha prodotto danni irreparabili, ricordo un articolo che parlava proprio di “danni irreparabili”. Io difendo la parte moderna, l’ho fatta perché penso sia molto importante non solo vedere il mondo antico come una vecchia stampa o una sorta di materiale d'archivio, ma riuscire a cogliere le impressioni che suscita in uno sguardo occidentale. L'obiettivo non ricadeva soltanto sullo scenario antico, “l'altro”, ma era incentrato anche sul nostro sguardo verso “l'altro”. Non a caso Nicola Cremonini è un tour operator, un uomo che organizza viaggi, è un turista in qualche modo, vive di turismo, quindi mi interessava vedere non solo un mondo nuovo, ma anche lo sguardo turistico su questo mondo. Credo, se posso permettermi, che per certi versi la parte moderna è scomoda allo spettatore occidentale, perché sicuramente è più affascinante vedere un mondo alieno piuttosto che vedere sé stessi. Oggi nessuno dice di fare volentieri il turista. Tutti dicono di non esserlo perché vedono che il turista da fastidio. Vedere lo sguardo tipicamente turistico penso dia fastidio anche alle popolazioni locali. Io sono sempre molto autocritico e credo che forse alcune parti potevano essere meno insistenti, meno dimostrative, talvolta mi piacerebbe poterle modificare. Lo dico perché continuo a ragionarci sul film anche una volta concluso, però tutto sommato col senno di poi sono contento di aver fatto la parte moderna, qualche sfumatura la farei diversa, ma sono contento comunque che ci sia.

JM: Ultima domanda, per concludere. Questo tuo lungometraggio, parlando di turismo, è stato un “viaggio turistico” nel cinema, per poi ritornare alla documentaristica, oppure hai qualche progetto in mente. Hai intenzione di proseguire su questa strada?

LH: È stato assolutamente un progetto che vuole continuare. Mi piacerebbe molto proseguire nel cinema, anche se appena finito questo lavoro ho ripreso la mia attività di documentarista, realizzando da allora ad oggi già altre cose. Penso che il documentario sia un approccio verso la realtà importante e interessante, e un film come il mio nasce proprio dopo aver fatto documentari, che voglio continuare a fare. Detto e ribadito che io ho comunque un’attività di documentarista che mi consente di vivere, per cui non ho quel bisogno compulsivo e disperato di fare un altro film, sto comunque già pensando ad un altro soggetto.

_____________________________

Lorenzo Hendel nasce a Firenze nel dicembre 1950. Alla fine degli anni settanta si trasferisce a Perugia, dove lavora alla sede regionale della RAI a un progetto di documentazione della realtà sociale territoriale, pur senza perdere di vista la ricerca sui linguaggi della televisione e l’impegno costante nella fiction teatrale e videoteatrale. Nel 1988 si trasferisce a Roma, e continua dentro RAI 3 l’attività di regista televisivo a tutti i livelli, mentre il lavoro di documentarista lo porta a viaggiare in tutti e sei i continenti (compresa l’Antartide). Nel 1996 realizza il corto “Tramonto”, nell’opera collettiva “Intolerance”, presente in rassegne di cortometraggi in Italia e all’estero.”Quando i bambini giocano in cielo” è il suo primo lungometraggio per il cinema.

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.