Pater Familias

Francesco Patierno, nato a Napoli nel 1964, è laureato in Architettura. Dal 1989 al 1991 è stato direttore creativo di una agenzia di pubblicità. Ha diretto più di duecento tra spot pubblicitari, filmati istituzionali e documentari industriali…

Francesco Patierno

Pater Familias

intervista a cura di Serena Smeragliuolo

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Serena  Smeragliuolo (SS): Intervistiamo a Maremetraggio Francesco Patierno autore del film Pater Familias, un film che racconta una storia di giovani ragazzi napoletani che sono persi nel loro quartiere, non hanno punti di riferimento, non hanno valori da seguire. Cosa ti ha portato a questa storia, tratta dall’omonimo libro di Cacciapuoti, e cosa ti ci ha fatto avvicinare?

Francesco Patierno (FP): Prima di tutto mi ci ha portato l'emozione che ho provato nel leggere un libro così vero, così maturo, perché a volte raccontando certe storie è facile cadere nei luoghi comuni, invece questo libro trasmetteva una conoscenza, un'esperienza profonda di chi era stato testimone di certe vicende e ha saputo renderle molto bene e in maniera molto emotiva. Per quanto riguarda l'avvicinamento: io vengo da un altro ambiente che non è quello che si racconta nel film, ma allo stesso tempo ho sentito qualcosa di mio, di profondamente mio che mi portava lì. È vero che la storia parte da un microcosmo sociale piuttosto danneggiato, ma poi, in qualche modo, riflette una condizione della famiglia, che forse può allargarsi e far riflettere anche le persone che non appartengono a certi nuclei così disagiati e disastrati.

SS: Partendo dal libro, tu e l’autore avete fatto un grosso lavoro sulla sceneggiatura, due anni e undici revisioni, e l'avete anche un po' stravolta inserendo molti dialoghi che nel libro mancavano…

FP: Si, devo dire che il tempo e le difficoltà per mettere in piedi il film, hanno sicuramente favorito un'elaborazione che è poi stata decisiva, perché è un film complesso, pieno di storie difficili da mettere insieme. Ha aiutato il tempo, la riflessione, le varie stesure… e devo dire che sono stati importanti anche i consigli e le critiche di chi leggeva la sceneggiatura. Questa esperienza mi ha fatto capire che la fretta probabilmente può danneggiare il percorso di un progetto che definirei complesso, come tutti quei progetti che meritano di essere realizzati.

SS: Tu vieni dalla pubblicità e questo è il tuo primo lungometraggio, anche se qualche anno fa c'è stato un corto… com’è avvenuto questo avvicinamento al cinema?

FP: Ma, devo dire che io ho avuto sempre una grande passione per le immagini, all'inizio era per quelle fisse, perché ho iniziato da appassionato di fumetti e disegnatore. Dopodiché, verso i diciotto anni questo interesse si è tramutato in passione per le immagini in movimento… un percorso lungo, ma in ogni modo molto deciso.

SS: In questa tua prima esperienza c’è poca fiction e molta realtà. Hai fatto un grosso lavoro sugli attori e alla ricerca delle facce giuste hai selezionato tremila persone che venivano dalla strada. Poi hai chiesto loro di non recitare ma in qualche modo di vivere il film. Da qui episodi incredibili come, per esempio, la scena della rapina al supermercato…

FP: Sì, gli attori hanno dovuto comunque recitare, rispettare un copione, però ho chiesto loro di non seguire dei percorsi canonici ma di far emanare l'emozione che era necessaria per questo film. Tanto è vero che poi di fronte a certe scene di violenza non me la sono sentita di fingere ma ho chiesto loro – con una certa dose di follia che oggi non userei più – di non recitare, ma di darsele sul serio… e  per esempio, le scene di rapina sono state girate all'insaputa dei passanti… In particolare c’è questa scena al supermercato nella quale due ragazzi escono con la pistola in pugno e tutti gli automobilisti che si trovavano a passare non sapevano fosse un film e li avevano scambiati per due rapinatori veri. Questo ha creato una grande confusione che da una parte ha favorito la credibilità della scena e dall'altra però ha procurato dei grossi problemi alla produzione.

SS: Nel film ci sono delle scene molto dure e alla fine resta l'amaro in bocca, sembra che non ci sia speranza. Un circolo vizioso nel quale i padri riflettono sui figli tutto il loro malessere…

FP: Certo il film è molto duro però all'interno di questa durezza una piccola luce c'è. Il protagonista, che è sempre stato molto passivo, alla fine fa qualcosa per placare in qualche modo i fantasmi che lo avevano ossessionato fino a quel momento. Quindi, in generale è un film duro, amaro, anche se credo ci sia una luce nel finale e che nel complesso lasci molto allo spettatore.

SS: Mi ha colpito la figura della suora, che ad un certo punto dice che questi giovani dei quartieri più malfamati di Napoli sono dei predestinati, dice che sono carne marcia

FP: Sì, sangue infetto. Questo perché alle volte è dura quando sei immerso in una certa realtà, al di là di tutte le buone intenzioni ti rendi conto che per molti di loro c'è un percorso già segnato. È orrendo dire una cosa del genere, anzi probabilmente deve far riflettere per intervenire alla radice, è proprio con le grandi istituzioni come la scuola e la famiglia, gli unici che probabilmente possono fare veramente qualcosa.

SS: E, infatti, sia nel libro che nel film, si fa capire che il problema di chi ruba non è la mancanza di lavoro ma l'ignoranza…

FP: Sì, sono grandi temi, e io credo che sia tutto frutto di una grossa ignoranza. Chi fa queste cose sicuramente non pensa a quello che sta facendo. Credo che la scuola non insegni solamente delle nozioni e poi la famiglia trasmetta anche delle emozioni… è proprio una cultura della vita, ma è un discorso complesso e si rischia di incorrere nella banalità. Credo però che alla fine, se si guarda da dove vengono certe persone e se si segue in maniera approfondita il loro percorso, ci si possa rendere conto che alla base mancano queste due cose, famiglia e scuola.

SS: La religione è molto presente nel tuo film: incorrono tante volte immagini sacre, poi la statuina della Madonna che viene rotta dai ragazzi, la figura della suora e infine quella del prete che poi nel libro nemmeno esisteva…

FP: Si, io da laico dico che la Chiesa, in certi luoghi, è proprio un avamposto di frontiera e credo faccia molto. Io ho girato alcune scene del film in una struttura che ospitava ragazzi senza famiglia, ragazze madri o aiutava i ragazzini che avevano pochi soldi per poter frequentare la scuola.
Quindi sono realtà importanti e probabilmente aiutano moltissimo. Però bisognerebbe anche fare un discorso sul volontariato…

SS: Ma se ne esce poi alla fine da questo circolo vizioso?

FP: Ci sono dei risultati solo se c’è un reale interesse a salvare questi ragazzi, e molti di loro possono essere salvati. Questo è un dato di fatto e dovrebbe far riflettere. Dire che questi ragazzi sono predestinati non significa che è inutile fare qualcosa, ma anzi significa invece che a maggior ragione è molto utile fare qualcosa.

SS: Come dicevamo questo è il tuo primo film, ed è stata una scelta molto coraggiosa che immagino abbia avuto anche dei percorsi molto travagliati, o no?

FP: Penso che soprattutto quando si tratta del primo film si ha la grossa possibilità di fare qualcosa senza calcoli e per dare veramente fondo a quelle che sono le emozioni e anche ad una purezza che poi scompare, si attenua… ed è inevitabile, anche nelle persone più sincere, perché alla fine ci si trova ad avere a che fare con un sistema molto complesso, che ha delle regole molto precise e te ne accorgi solo quando ci sei dentro… L'opera prima è quindi sempre molto sacra e bisogna cercare di metterci tutto quello che si ha.

SS: Si parlava prima invece di quando poi un regista cresce e inevitabilmente va incontro al compromesso, alle regole del cinema…

FP: Soprattutto in Italia, in cui ogni film è un po’ la prova del nove… Allora, il primo film è un biglietto da visita e quindi puoi anche fare un film che incassa poco anche perché magari va in giro per i festival, fa parlare di sé… Poi però con il secondo film devi rendere conto anche al botteghino. E per far pubblico il 99% delle volte devi andare incontro a dei compromessi e allora a quel punto ci si ritrova a scegliere se fare un secondo film senza compromessi e poi però per molto tempo non girare più nulla o cercare piano piano di trovare un compromesso fra la fedeltà ad un proprio percorso e il ragionamento su come riuscire ad incontrare di più i gusti del pubblico. È orrendo, però questa riflessione va fatta.

SS: A proposito dei gusti del pubblico, com’è stato sentito il film nei quartieri di Napoli e poi in generale in Italia e all'estero.

FP: Mah, devo dirti la verità: il film laddove è stato visto ha avuto, come si diceva tempo fa per la televisione, un indice di gradimento piuttosto alto. È ovvio che è un film che ha difficoltà ad essere visto, proprio perché è abbastanza difficile.

SS: e nei quartieri napoletani in particolare?

FP: Nei quartieri, ma anche all'estero, devo dire che non è stato visto come un film pericoloso o inaccettabile, anzi…

SS: Parliamo del tuo prossimo film che se non sbaglio è già in preparazione.

FP: Sì, si chiama Banda armata ed è sulla storia dei terroristi Mambro e Fioravanti Anche in questo film c'è un punto di vista piuttosto personale che non tocca tanto la politica quanto un discorso più personale… riguarda come sempre la famiglia e la società.

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Francesco Patierno, nato a Napoli nel 1964, è laureato in Architettura. Dal 1989 al 1991 è stato direttore creativo di una agenzia di pubblicità. Ha diretto più di duecento tra spot pubblicitari, filmati istituzionali e documentari industriali, lavorando per clienti come Tim, Telecom, Ferrovie dello Stato… e case di produzione come Filmaster, Harold…
Ha lavorato anche in molti programmi televisivi come regista: la sit-com “Disokkupati” su RAI2 e autore: GNU, con Bruno voglino su RAI3.
Nel 1996 ha scritto e diretto un cortometraggio: “Quel giorno” in concorso alla 53° mostra di arte cinematografica di Venezia e selezionato in 38 festival (30 dei quali internazionali).
Tra il 2001 e il 2002 ha scritto e diretto due documentari per la serie “C'era Una Volta” su RAI3.

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