“Diario di bordo” della settima serata

TRA L’AGONISMO E L’AGONIA
Mentre il tempo si ostina a creare una sceneggiatura invernale sugli entusiasmi interni ed esterni di Maremetraggio, ecco l’occasione per una tregua dei cortometraggi: stavolta la materia è di quelle complesse, non ci si può alzare dalla poltroncina ogni venti minuti.

La storiografia del cinema sportivo internazionale è a ben vedere piuttosto esigua: difficilmente la macchina da presa è riuscita a cogliere con la giusta credibilità la vita sospesa tra disciplina e disequilibrio che è pane quotidiano dell’agonismo.
Bisogna risalire agli anni Sessanta inglesi e al “free cinema” di Lindsay Anderson con “Io sono un campione”, dove uno straordinario Richard Harris raccontava con dolorosa credibilità tutto il tormento di un asso dello sport.
Al di là di questo vale la pena di spendere qualche parola sul film “Wimbledon” di Richard Locraine; alcuni anni fa il settimanale del Corriere della Sera “Sette” dedicava una copertina alle giovani campionesse del tennis, con il titolo “Campioni o mostri?”.
Ci si riferiva senza mezzi termini alle disumane pratiche applicate letteralmente sulla pelle degli outsiders dello sport più blasonati.
Da Jennifer Capriati a Vanessa Williams, da Staffi Graff ai più vetusti John McEnroe e Andre Agassi fu, tutto un coro di denunce e di scandali; da vero il caso di dire non è tutto oro quello che luccica.
Quanto finora relazionato si incastra relativamente con il film visionato ieri sera: certo non manca la cattiveria genuina di certi individui che salgono sul campo verde unicamente per fare del male al prossimo rivalersi di qual si voglia frustrazione.
Buona la generale interpretazione degli attori (tra cui la fresca Kirsten Durst, non dimenticato amore dai capelli rossi di Spiderman) un po’ meno esaltante il buonismo dell’assunto finale.
Bastasse guardare negli occhi una bella ragazza per vincere i tornei mondiali, avremmo moltitudini di maghi della racchetta.
Discesa piena e angosciosa nel Maelstrom caro ad Edgar Alan Poe per il secondo lungometraggio in programma, “Pater Familias” di Francesco Paterno.
Ricostruire le volte che il cinema italiano si è interessato delle problematiche irrisolte e spesso tragiche del Meridione significa aver intenzione di scrivere un libro.
Negli anni Sessanta forse il più lucido osservatore in materia fu Francesco Rosi: basterebbero due titoli ancora oggi studiati nelle accademie di Cinema quali “Salvatore Giuliano” e “Le mani sulla città” per renderci conto che non stiamo scherzando.
Straordinari ed indimenticabili anche “A ciascuno il suo” di Elio Petri e il “Giorno della Civetta” di Damiano Damiani, entrambi tratti da romanzi di Leonardo Sciascia; più recentemente Marco Risi ci ha fatto affondare nelle sabbie mobili di una Palermo livida e inconsolabile con il dittico “Mery per sempre” e “Ragazzi fuori”.
L’opera di Patierno è forse un gradino più in basso ancora come sottoscala dell’inferno: una violenza ceca e irrefrenabile muove i protagonisti di ogni età, li porta a massacrare di botte le donne, mogli figlie o fidanzate che siano, a risolvere pacificamente i conflitti interiori con un buco in mezzo alla fronte, a dare delle puttane alle sventurate che aprono l’uscio di casa.
Un microcosmo da film dell’orrore, dove gli studenti gettano dal quinto piano la statua della Madonna, e dove c’è sempre un garage discreto e senza occhi per annientare il nemico.
Attraverso l’occasione del lutto paterno il protagonista rivive ogni fase di una vita scellerata che purtroppo non è solo la sua.
Un film di denuncia, aspro, disperato senza alcuno spiraglio di luce attraverso quelle persiane vecchie e cadenti che abbiamo visto in tanti film dedicati al Sud.
Forse tra i lungometraggi presenti a questa edizione di Maremetraggio 2005 questo è il più sincero, il più desolatamente vero tanto da impedire il consueto rito degli applausi finali.
Riccardo Visintin
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